30.4.11
28.4.11
il daino magico
Artemide, la divina cacciatrice della mitologia greca, era capace di cacciare senza nessuno sforzo. Soddisfaceva con facilità i propri bisogni, vivendo in perfetta armonia con la foresta. Tutte le creature selvatiche l'amavano e consideravano un onore essere cacciate da lei. Non sembrava mai che Artemide fosse a caccia: qualsiasi animale volesse, le si avvicinava spontaneamente. Era la migliore cacciatrice, ma anche la preda più difficile. La sua forma animale era un daino magico, quasi impossibile da catturare. Artemide visse in perfetta armonia con la foresta, finchè un giorno un re diede l'ordine di cacciare il daino magico a Ercole, figlio di Zeus, il quale era alla ricerca della propria trascendenza. Ercole, che non era mai stato sconfitto, si recò nella foresta. Il daino lo vide e non ebbe paura di lui. Lo lasciò avvicinare, ma quando Ercole tentò di catturarlo corse via. Ercole comprese che per catturarlo doveva diventare un cacciatore migliore di Artemide. Chiese a Ermes piè veloce, il messaggero degli dei, di prestargli le sue ali. Poi, con la rapidità del lampo, s'impadronì della preda. Potete immaginare la reazione di Artemide. Per pareggiare i conti cercò di cacciare Ercole, ma benché facesse del suo meglio per catturarlo, non ci riuscì. Ercole restò libero. Artemide non aveva bisogno di Ercole. Si sentiva attratta da lui, ma naturalemente era un'illusione. Credeva di amarlo e lo voleva per sé. Era l'unica cosa che voleva, e divenne un'ossessione, finché lei non fu più felice e iniziò a cambiare. Non era più in armonia con la foresta, perché cacciava soltanto per il piacere di abbattere la preda. Ruppe le proprie regole, diventando una predatrice. Gli animali iniziarono a temerla e la foresta la rifiutò, ma ad Artemide non importava. Non poteva vedere la verità, perché aveva in mente soltanto Ercole. Ercole non aveva idea di cosa stesse accadendo nella mente di Artemide. Non si rendeva conto che lei cercava di catturarlo, perché non credeva di essere una preda. Amava e rispettava Artemide, ma questo non era ciò che lei voleva: Artemide voleva possederlo. Voleva catturarlo, comportarsi con lui come un predatore. Naturalmente tutti nella foresta notavano il cambiamento avvenuto in Artemide, eccetto lei stessa. Nella sua mente Artemide era convinta di essere ancora la cacciatrice divina. Non si rendeva conto della sua caduta, non si rendeva conto che la foresta si era trasformata da un paradiso all'inferno, perché dopo la sua caduta tutti gli altri cacciatori erano diventati predatori. Un giorno Ermes assunse la forma di un animale, e proprio mentre Artemide stava per ucciderlo si trasformò di nuovo in un dio. Le permise di comprendere la sua caduta, così Artemide ritrovò la saggezza perduta. Con tale consapevolezza si recò da Ercole e gli chiese perdono. Era stata solo la sua importanza personale a causare la sua caduta. Parlando con Ercole, si rese conto di non averlo mai offeso, perché lui non aveva mai capito ciò che accadeva nella sua mente. Poi la dea si guardò intorno e vide ciò che aveva fatto alla foresta. Si scusò con ogni fiore, con ogni animale, finché riconquistò il loro amore e fu di nuovo la divina cacciatrice.
Vi ho raccontato questa storia per farvi capire che tutti siamo cacciatori e prede. E' così per tutto ciò che esiste. Cacciamo per soddisfare i nostri bisogni. Esiste una differenza tra bisogni del corpo e quelli della mente. Quando la mente crede di essere il corpo, i bisogni sono illusori e non possono essere soddisfatti. Se cacciamo per bisogni irreali, che sono presenti soltanto nella nostra mente, diventiamo predatori: cacciamo ciò di cui non abbiamo bisogno. Gli umani sono sempre a caccia d'amore: sentiamo di avere bisogno d'amore perché crediamo di non averne dentro di noi, perché non amiamo noi stessi. Andiamo a caccia d'amore in altri umani e ci aspettiamo di ricevere amore da loro, senza capire che si trovano nella nostra stessa condizione. Non amano neppure se stessi perciò quanto amore potranno darci? Tutto ciò che riusciamo a fare è creare un bisogno ancora più grande, che non è neppure reale. Continuiamo a cacciare, ma nel posto sbagliato, perché gli altri umani non hanno l'amore che vogliamo. Quando Artemide si rese conto della propria caduta tornò in sé, perché tutto ciò di cui aveva bisogno era dentro di lei. Lo stesso vale per noi. Andiamo a caccia di amore, di felicità, di giustizia. Cerchiamo Dio, ma Dio è dentro di noi.
Capitolo 9
La padronanza dell'amore
D M R
Vi ho raccontato questa storia per farvi capire che tutti siamo cacciatori e prede. E' così per tutto ciò che esiste. Cacciamo per soddisfare i nostri bisogni. Esiste una differenza tra bisogni del corpo e quelli della mente. Quando la mente crede di essere il corpo, i bisogni sono illusori e non possono essere soddisfatti. Se cacciamo per bisogni irreali, che sono presenti soltanto nella nostra mente, diventiamo predatori: cacciamo ciò di cui non abbiamo bisogno. Gli umani sono sempre a caccia d'amore: sentiamo di avere bisogno d'amore perché crediamo di non averne dentro di noi, perché non amiamo noi stessi. Andiamo a caccia d'amore in altri umani e ci aspettiamo di ricevere amore da loro, senza capire che si trovano nella nostra stessa condizione. Non amano neppure se stessi perciò quanto amore potranno darci? Tutto ciò che riusciamo a fare è creare un bisogno ancora più grande, che non è neppure reale. Continuiamo a cacciare, ma nel posto sbagliato, perché gli altri umani non hanno l'amore che vogliamo. Quando Artemide si rese conto della propria caduta tornò in sé, perché tutto ciò di cui aveva bisogno era dentro di lei. Lo stesso vale per noi. Andiamo a caccia di amore, di felicità, di giustizia. Cerchiamo Dio, ma Dio è dentro di noi.
Capitolo 9
La padronanza dell'amore
D M R
25.4.11
24.4.11
22.4.11
21.4.11
20.4.11
verità
Spesso il titolo di Mahatma (grande anima) mi ha profondamente addolorato, sono un essere mortale qualunque, soggetto alle stesse debolezze di tutti gli altri esseri viventi.
Non ho nulla di nuovo da insegnare al mondo. La Verità e la Nonviolenza sono antiche come le montagne.
L'unica cosa che ho fatto è di aver cercato di sperimentarle entrambe al massimo delle mie possibilità.
Gandhi parla di se stesso
Un umile ricercatore della verità
Autore Mohandas K. Gandhi
Editore EMI, 1998
Un umile ricercatore della verità
Autore Mohandas K. Gandhi
Editore EMI, 1998
umiltà
dal latino: [humi] a terra, derivante da [humus] terra.
C'è un nesso con la terra, una potenza primitiva che non si può trattare con superiorità.
In sanscrito, bhumi, significa terra, e la creatura della terra è bhuman (da cui umano).
In sanscrito, bhumi, significa terra, e la creatura della terra è bhuman (da cui umano).
La superbia, super-bios, crescere sopra, è qualcosa di aereo che trascura il forte vincolo dell'umano con la terra da cui deriva.
L'umile, probabilmente, è qualcuno autenticamente legato alla propria natura, che la comprende in sé.
19.4.11
18.4.11
17.4.11
16.4.11
Enrico 2
Certi hanno bisogno di più di quello che hanno
e altri hanno di più di quello che gli serve.
Days of heaven
Enzo Mari (Sette – aprile 2011) inoltrata da Enrico
Mari, lei non stima i suoi colleghi.
«Nani… ballerine. I designer sono i primi tra i miei nemici».
Perché?
«Il 95% è totalmente ignorante. Sono dei piccoli robot che accettano come valore solo il mercato».
«Vendo dunque sono»?
«Poi c’è un 5% che capisce, ma cinicamente accetta le distorsioni dello stesso mercato: oggetti costruiti per durare solo qualche mese… Non servono a chi li acquista, ma a chi li produce per fare profitto. È legittimo, ma non si riempiano riviste e volumi per dire che questi lavori contengono qualcosa di cui la società ha bisogno».
Non si salva nulla?
«Da trent’anni si producono oggetti di design che hanno l’unico scopo/caratteristica di sembrare diversi uno dall’altro. Nulla di nuovo».
Che caratteristiche dovrebbe avere un oggetto di design?
«Io ho sempre messo alla base della mia ricerca la bellezza della forma. E l’idea di standard».
L’idea di standard?
«Oggetti che vadano bene per tutti, anche per chi li fabbrica, e che non passeranno mai di moda».
Mi fa qualche esempio?
«Per le sedie, le Thonet. In legno curvo. Tenga presente che nel primo catalogo di quell’industria i pezzi non erano firmati».
Per i tavoli?
«Forse quelli di Alvar Aalto. Ma anche il mio Frate è uno dei più belli del secolo scorso. Sulle lampade non ho dubbi: la Toio dei fratelli Castiglioni».
Perché?
«È un’allegoria del progettare lampade. Ricavata da oggetti ready-made: un filo elettrico, il fanale di una macchina… Un oggetto merita titoli e pubblicazioni se cambia qualcosa nel fare dell’uomo. Non se è una semplice variazione sul tema».
Contro le semplici variazioni sul tema, oggi c’è l’art design. Ha presente la libreria di Ron Arad?
«Tataratatatatarata».
Come, scusi?
«Su quella roba non so che cosa dire. È show. Chi si può mettere in casa un oggetto così? Chi lo ha progettato non ama i libri. È una presa in giro. O è arte decorativa. E allora se uno si vuole mettere in casa un bell’oggetto consiglierei una riproduzione di Modigliani, o un vero Modigliani, per chi se lo può permettere. C’è anche un problema di linguaggio…».
In che senso?
«Spesso ci si lamenta perché il pubblico non capisce certi pezzi, o certi progetti architettonici… E grazie che non li capisce: la ricerca deve essere libera, ma se ogni imbecille rivendica un suo linguaggio… La firma… la firma!».
La firma dei pezzi di design è un problema?
«Lo è diventato. La botte, che si fa allo stesso modo da secoli, è un progetto anonimo. Come sono anonimi molti palazzi del centro di Milano e di Roma dove vanno a vivere gli architetti che, per gli altri, progettano e firmano obbrobri».
Lei, anche per denunciare l’ossessione del pezzo firmato, progettò Ecolo: un vaso che l’acquirente si costruiva da solo e su cui poi poteva applicare la sua firma e il marchio Alessi.
«Era anche un modo per far capire a tutti che il vaso è secondario rispetto alla composizione floreale».
Sarà stato contento il produttore dei vasi. Sbaglio o lei ha sempre avuto un rapporto abbastanza complesso con gli imprenditori?
«Il problema è che oggi tutti i grandi imprenditori realizzano oggetti solo per produrre denaro. Io con questi non ci posso lavorare. Cerco di lavorare solo con chi dimostra un po’ di passione per il progetto. Con chi si metterebbe in casa l’oggetto che produce».
Un esempio di imprenditore illuminato?
«Danese, con cui ho lavorato per anni. Gismondi (di Artemide), che ha ancora un grande laboratorio per le sperimentazioni. E Olivetti, con cui ho realizzato solo dei progetti grafici».
Oggi va molto di moda il design ecologico. Se lei fosse un giovane designer è lì che applicherebbe le sue doti?
«No. Anche perché per ogni eco-paccottiglia esistono già almeno duecento pezzi, precedenti e migliori. Se fossi giovane aprirei un negozio per vendere il meglio di quel che è stato prodotto nel mondo. Sarebbe educativo».
Educazione. Lei quanti designer ha allevato?
«Nel mio studio sono passati circa 500 ragazzi. I migliori? Quelli che avevano fatto studi umanistici».
Mari, lei è démodé. Parla di cultura umanistica nell’Italia delle tre “i”: Internet, Inglese, Impresa.
«Le tre “i” servono per creare degli zombi, dei cyborg. La cultura umanistica, invece, ti fornisce un corrimano etico che ti accompagna in tutte le scelte. Nel design vuol dire anche progettare per la gente, ignorando il mercato».
Progettare. Oggi i giovani designer hanno a disposizione strumenti eccezionali. Con le macchine a controllo numerico possono progettare pezzi di design in libertà. È la via giusta per rilanciare la loro creatività?
«No. È la via giusta per ucciderla».
Ma come… il designer con quelle macchine computerizzate è libero dalle imposizioni del mercato. Si può sbizzarrire.
«I computer non fanno bene al processo creativo. I nostri neuroni sono più potenti di un software. Certo, se uno ha già una cultura umanistica, la macchina può dargli una mano a sbrigare certe faccende. Ma su uno studente ventenne e demente che frequenta Architettura, l’effetto del pc può essere devastante».
Non ha una grande considerazione delle Università e degli Istituti per designer.
«Per quel che ho visto, creano spesso un vuoto di conoscenza. Ci vogliono meno scuole di specializzazione e più sapere umanistico. E poi io parto dal presupposto che la vera qualità nasce dalla fatica. Dal lavoro».
Più che dal tempo passato nelle aule?
«I giovani che non vogliono restare disoccupati dovrebbero capire l’importanza del lavoro come trasformazione. Partendo da qui, si costruisce il futuro».
Lei che studi ha fatto?
«Sono diventato un buon designer proprio perché di scuole ne ho frequentate poche. Non ho subito l’ultra parcellizzazione del sapere a cui sono sottoposti oggi i giovani. A quindici anni, a causa di una tragedia familiare, ho lasciato il liceo per fare il capofamiglia. Eravamo poveri. Da piccolo passavo le ore sulle dispense dei classici rilegate da mio padre. Mi aggiustavo i giocattoli. Ora si cresce con l’oppio dei computer e dei telefonini».
Il suo primo lavoro?
«Un cartello per pubblicizzare il vino nuovo in una osteria sotto casa».
Intendevo da designer.
«Quello è venuto tardi. Prima mi sono iscritto all’Accademia d’arte. Volevo fare il pittore. Feci un viaggio in Toscana per conoscere i maestri rinascimentali».
Il pittore/designer Max Bill scrisse, nel 1959, che era molto alta la probabilità che lei producesse opere d’arte, ma era bassissima la possibilità che venissero percepite come tali.
«A Roma, di fronte alla cappella Sistina, mi sono reso conto che non avrei mai potuto raggiungere quei livelli. E allora mi sono posto l’obiettivo di diventare il Michelangelo dei fiammiferi. Per molti anni la mia attività fu di progettare giocattoli in legno per la Rinascente».
Torniamo al primo pezzo di design.
«Forse una ciotola per Danese. Ma guardi che non sempre i miei pezzi hanno avuto successo».
«Nani… ballerine. I designer sono i primi tra i miei nemici».
Perché?
«Il 95% è totalmente ignorante. Sono dei piccoli robot che accettano come valore solo il mercato».
«Vendo dunque sono»?
«Poi c’è un 5% che capisce, ma cinicamente accetta le distorsioni dello stesso mercato: oggetti costruiti per durare solo qualche mese… Non servono a chi li acquista, ma a chi li produce per fare profitto. È legittimo, ma non si riempiano riviste e volumi per dire che questi lavori contengono qualcosa di cui la società ha bisogno».
Non si salva nulla?
«Da trent’anni si producono oggetti di design che hanno l’unico scopo/caratteristica di sembrare diversi uno dall’altro. Nulla di nuovo».
Che caratteristiche dovrebbe avere un oggetto di design?
«Io ho sempre messo alla base della mia ricerca la bellezza della forma. E l’idea di standard».
L’idea di standard?
«Oggetti che vadano bene per tutti, anche per chi li fabbrica, e che non passeranno mai di moda».
Mi fa qualche esempio?
«Per le sedie, le Thonet. In legno curvo. Tenga presente che nel primo catalogo di quell’industria i pezzi non erano firmati».
Per i tavoli?
«Forse quelli di Alvar Aalto. Ma anche il mio Frate è uno dei più belli del secolo scorso. Sulle lampade non ho dubbi: la Toio dei fratelli Castiglioni».
Perché?
«È un’allegoria del progettare lampade. Ricavata da oggetti ready-made: un filo elettrico, il fanale di una macchina… Un oggetto merita titoli e pubblicazioni se cambia qualcosa nel fare dell’uomo. Non se è una semplice variazione sul tema».
Contro le semplici variazioni sul tema, oggi c’è l’art design. Ha presente la libreria di Ron Arad?
«Tataratatatatarata».
Come, scusi?
«Su quella roba non so che cosa dire. È show. Chi si può mettere in casa un oggetto così? Chi lo ha progettato non ama i libri. È una presa in giro. O è arte decorativa. E allora se uno si vuole mettere in casa un bell’oggetto consiglierei una riproduzione di Modigliani, o un vero Modigliani, per chi se lo può permettere. C’è anche un problema di linguaggio…».
In che senso?
«Spesso ci si lamenta perché il pubblico non capisce certi pezzi, o certi progetti architettonici… E grazie che non li capisce: la ricerca deve essere libera, ma se ogni imbecille rivendica un suo linguaggio… La firma… la firma!».
La firma dei pezzi di design è un problema?
«Lo è diventato. La botte, che si fa allo stesso modo da secoli, è un progetto anonimo. Come sono anonimi molti palazzi del centro di Milano e di Roma dove vanno a vivere gli architetti che, per gli altri, progettano e firmano obbrobri».
Lei, anche per denunciare l’ossessione del pezzo firmato, progettò Ecolo: un vaso che l’acquirente si costruiva da solo e su cui poi poteva applicare la sua firma e il marchio Alessi.
«Era anche un modo per far capire a tutti che il vaso è secondario rispetto alla composizione floreale».
Sarà stato contento il produttore dei vasi. Sbaglio o lei ha sempre avuto un rapporto abbastanza complesso con gli imprenditori?
«Il problema è che oggi tutti i grandi imprenditori realizzano oggetti solo per produrre denaro. Io con questi non ci posso lavorare. Cerco di lavorare solo con chi dimostra un po’ di passione per il progetto. Con chi si metterebbe in casa l’oggetto che produce».
Un esempio di imprenditore illuminato?
«Danese, con cui ho lavorato per anni. Gismondi (di Artemide), che ha ancora un grande laboratorio per le sperimentazioni. E Olivetti, con cui ho realizzato solo dei progetti grafici».
Oggi va molto di moda il design ecologico. Se lei fosse un giovane designer è lì che applicherebbe le sue doti?
«No. Anche perché per ogni eco-paccottiglia esistono già almeno duecento pezzi, precedenti e migliori. Se fossi giovane aprirei un negozio per vendere il meglio di quel che è stato prodotto nel mondo. Sarebbe educativo».
Educazione. Lei quanti designer ha allevato?
«Nel mio studio sono passati circa 500 ragazzi. I migliori? Quelli che avevano fatto studi umanistici».
Mari, lei è démodé. Parla di cultura umanistica nell’Italia delle tre “i”: Internet, Inglese, Impresa.
«Le tre “i” servono per creare degli zombi, dei cyborg. La cultura umanistica, invece, ti fornisce un corrimano etico che ti accompagna in tutte le scelte. Nel design vuol dire anche progettare per la gente, ignorando il mercato».
Progettare. Oggi i giovani designer hanno a disposizione strumenti eccezionali. Con le macchine a controllo numerico possono progettare pezzi di design in libertà. È la via giusta per rilanciare la loro creatività?
«No. È la via giusta per ucciderla».
Ma come… il designer con quelle macchine computerizzate è libero dalle imposizioni del mercato. Si può sbizzarrire.
«I computer non fanno bene al processo creativo. I nostri neuroni sono più potenti di un software. Certo, se uno ha già una cultura umanistica, la macchina può dargli una mano a sbrigare certe faccende. Ma su uno studente ventenne e demente che frequenta Architettura, l’effetto del pc può essere devastante».
Non ha una grande considerazione delle Università e degli Istituti per designer.
«Per quel che ho visto, creano spesso un vuoto di conoscenza. Ci vogliono meno scuole di specializzazione e più sapere umanistico. E poi io parto dal presupposto che la vera qualità nasce dalla fatica. Dal lavoro».
Più che dal tempo passato nelle aule?
«I giovani che non vogliono restare disoccupati dovrebbero capire l’importanza del lavoro come trasformazione. Partendo da qui, si costruisce il futuro».
Lei che studi ha fatto?
«Sono diventato un buon designer proprio perché di scuole ne ho frequentate poche. Non ho subito l’ultra parcellizzazione del sapere a cui sono sottoposti oggi i giovani. A quindici anni, a causa di una tragedia familiare, ho lasciato il liceo per fare il capofamiglia. Eravamo poveri. Da piccolo passavo le ore sulle dispense dei classici rilegate da mio padre. Mi aggiustavo i giocattoli. Ora si cresce con l’oppio dei computer e dei telefonini».
Il suo primo lavoro?
«Un cartello per pubblicizzare il vino nuovo in una osteria sotto casa».
Intendevo da designer.
«Quello è venuto tardi. Prima mi sono iscritto all’Accademia d’arte. Volevo fare il pittore. Feci un viaggio in Toscana per conoscere i maestri rinascimentali».
Il pittore/designer Max Bill scrisse, nel 1959, che era molto alta la probabilità che lei producesse opere d’arte, ma era bassissima la possibilità che venissero percepite come tali.
«A Roma, di fronte alla cappella Sistina, mi sono reso conto che non avrei mai potuto raggiungere quei livelli. E allora mi sono posto l’obiettivo di diventare il Michelangelo dei fiammiferi. Per molti anni la mia attività fu di progettare giocattoli in legno per la Rinascente».
Torniamo al primo pezzo di design.
«Forse una ciotola per Danese. Ma guardi che non sempre i miei pezzi hanno avuto successo».
15.4.11
14.4.11
13.4.11
12.4.11
Iscriviti a:
Post (Atom)
Archivio blog
-
▼
2011
(491)
-
▼
aprile
(69)
- carlo scarpa
- palazzo fortuny, venezia
- il daino magico
- ALLINEAMENTOIL VOLERE, IL DIRE E IL FARE
- vicino al fiumesolo e selvaticonascosto, protetto
- Nessun titolo
- F di ...
- shanti shanti shanti
- rinascita
- sempliciTA' !!
- sincerità
- verità
- umiltà
- sandali belli !!
- daccapo
- Nessun titolo
- unknown
- nella mia libreria preferita
- uno dei miei libri preferiti
- la conclusione del salone
- piccolo bar olandese
- lambrate final rush
- brunch con glicine fiorito
- le tre di di oggi
- la festa più bella del salone
- la via d'uscita
- Enrico 2
- Enzo Mari (Sette – aprile 2011) inoltrata da Enrico
- oggi in via tortona
- talking textiles
- di vaso in fiore
- il giappone alla rinascente
- inaspettatamente
- i belgi a brera
- galleria luisa delle piane
- grazie!!!
- oggi pomeriggio
- per stada stamattina
- studiopepe.info
- giulio minoletti
- the lost explorer
- il cinema di sofia coppola
- pic nic
- io+sofia
- dodici!
- preferisco le foto a colori ma questa è bella
- Ho cercato di comunicare quello che gli altri non ...
- si parte!!
- cippi!
- Nessun titolo
- Nessun titolo
- Nessun titolo
- www.leskimo.it
- prossima lettura!
- uno dei miei libri preferiti
- Nessun titolo
- Nessun titolo
- a revolution without dancing is a revolution not w...
- mousse
- rêve d’automne
- two
- fernanda + ettore
- luce
- tanti tutti
- tanti quattro
- un regalo speciale
- a cordovado
- avevi mai visto una catastrofe così bella?zorba
- hai imparato a ridere!
-
▼
aprile
(69)
Informazioni personali
Powered by Blogger.