Non si dà amore senza possibilità di tradimento così come non si dà tradimento se non all’interno di un rapporto d’amore. A tradire infatti non sono i nemici e tantomeno gli estranei, ma i padri, le madri, i figli, i fratelli, gli amanti, le mogli, i mariti, gli amici. Solo loro possono tradire perché su di loro un giorno abbiamo investito il nostro amore. Il tradimento appartiene all’amore come il giorno alla notte.
Nel suo saggio su Il tradimento che è possibile leggere in Puer Aeternus (Adelphi) James Hillman prende in esame le possibili reazioni al tradimento, indicando tra queste: quelle che bloccano la coscienza e quelle che la emancipano. Innanzitutto la “vendetta” che è una risposta emotiva che salda il conto ma non emancipa la coscienza perché quando è immediata non ha altro significato se non quello di scaricare una tensione, mentre quando è procrastinata, quando attende l’occasione buona, restringe la coscienza in fantasie di astiosità e crudeltà impedendole di far qualsiasi altra esperienza. La vendetta rattrappisce l’anima. Non diversamente opera il meccanismo della “negazione”. Quando in un rapporto uno dei due subisce una delusione, la tentazione è quella di negare il valore dell’altro prima idealizzato. Non si è voluto vedere l’ombra dell’altro quando si era innamorati, ora dopo il tradimento, si ricaccia l’altro per intero nella sua ombra. Due eccessi, dove prima l’amore cieco e poi il cieco odio dicono quanto infantile e primitiva è la nostra anima.
Più pericoloso è il “cinismo” che non solo nega il valore dell’altro, ma fa dire che l’amore è sempre una fregatura, che i grandi amori sono per gli ingenui, cercando in questo modo di cicatrizzare la fiducia infranta. Con i cocci dell’idealismo si costruisce la filosofia del rude cinismo capace solo di offrire un ghigno a quella che un tempo era la propria stella. Ma forse ancora più preoccupante del cinismo è il “tradimento di sé”, per cui una confessione, una poesia, una lettera d’amore, un progetto fantastico, un segreto, un sogno, insomma i nostri valori emotivi più profondi diventano cose ridicole, da sbeffeggiare sguaiatamente per evitare di vergognarsi di averle un giorno provate. E’ una strana esperienza quella di trovarsi a tradire se stessi e a trattare le proprie esperienze emotive vissute nel tempo dell’amore come esperienze negative e spregevoli.
Ma con la vendetta, la negazione, il cinismo, il tradimento di sé non siamo ancora all’ultimo stadio quando per proteggerci dall’eventualità di essere nuovamente traditi optiamo per la “scelta paranoide” che, per instaurare un rapporto esente dalla possibilità del tradimento, mette in atto quelle liturgie come le dichiarazioni di fedeltà eterna, le prove di devozione, i giuramenti di mantenere il segreto. Sono questi atteggiamenti che attengono non alla sfera dell’amore, ma alla sfera del potere. Quando infatti un marito, un amante, un discepolo o un amico si sforzano di soddisfare i requisiti di un rapporto paranoide, dando assicurazioni di fedeltà per cancellare la possibilità del tradimento, è garantito che si sta allontanando dall’amore, perché amore e tradimento attingono alla stessa fonte.
Se evitiamo di cadere nei pericoli fino qui descritti e quindi di rimanervi in essi sterilmente fissati, allora l’esperienza del tradimento può rivelare il suo aspetto più creativo ed evolutivo della coscienza, che, per Hillman, come del resto per la tradizione cristiana, trova la sua espressione nel “perdono” che, riconoscendo il tradimento e passando oltre, toglie all’amore il suo aspetto più infantile che è l’ingenuità e l’incapacità di amare se appena si annuncia un profilo d’ombra.
Ma si può davvero perdonare, se è vero che l’io si mantiene vitale solo grazie al suo amor proprio, al suo orgoglio, al suo senso dell’onore? Anche quando vorremmo sinceramente perdonare, scopriamo che proprio non riusciamo perché il perdono non viene dall’io. E allora forse, meglio del perdono, che probabilmente è pratica insincera, a me sembra più costruttivo percorrere il sentiero del “reciproco riconoscimento”.
Siccome i due sono ancora legati in un rapporto dei nuovi ruoli di traditore e di tradito, i due possono soccorrersi solo se il traditore non attenua la crudeltà del tradimento e, riconoscendolo senza ammorbidirlo con false giustificazioni, consente all’altro di trovare da sé la spiegazione, e così di passare dalla beata innocenza della fiducia originaria, dove mai neanche lontanamente si profilava il male, a quella coscienza adulta che sa che, ogni volta che siamo in relazione con l’altro, mettiamo in atto anche il nostro desiderio di non annullarci nell’altro.
Vogliamo essere con l’altro, ma nello stesso tempo, per salvare la nostra individualità, vogliamo non esserci completamente. Di qui quell’esserci e non esserci, quel rincorrersi e tradire, che fa parte della relazione amorosa. Perché l’amore è una “relazione”, non una fusione. Se infatti non esistessimo come individualità autonome, non solo non potremmo incontrare l’altro e metterci in relazione, ma non avremmo neppure nulla da raccontare all’altro fuso simbioticamente con noi.
Come dice Gabriela Turnaturi nel suo bel libro Tradimenti (Feltrinelli) quando lei o lui iniziano un viaggio fuori dal “noi” che non emancipa, non consente né crescite né arricchimenti e neppure parole da scambiare che non siano già dette o già sapute prima che siano pronunciate. Amore è un gioco di forze dove si decide a quale dio offrire la propria vita: al dio della felicità che sempre accompagna la realizzazione di sé, o al dio della sicurezza che molto spesso si affianca alla negazione di sé.
Il traditore di solito queste cose le sa, meno del tradito che, quando non si rifugia nella vendetta, nel cinismo, nella negazione o nella scelta paranoide, finisce per consegnarsi a quel tradimento di sé che è la svalutazione di sé stesso per non essere più amato dall’altro, senza così accorgersi che allora, nel tempo dell’amore, la sua identità era solo un dono dell’altro. Tradendolo, l’altro lo consegna a sé stesso, e niente impedisce di dire a tutti coloro che si sentono traditi che forse un giorno hanno scelto chi li avrebbe traditi per poter incontrare sé stesso.
Sembra infatti che la legge della vita sia scritta più nel segno del tradimento che in quello della fedeltà, forse perché la vita preferisce di più chi ha incontrato sé stesso e sa chi davvero è, rispetto a chi ha evitato di farlo per stare rannicchiato in un’arca protetta, dove il camuffamento dei nomi fa chiamare amore quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi davvero si è, per il terrore di incontrare sé stessi, un giorno almeno, prima di morire, con il rischio di non essere mai davvero nati.
Nel viaggio che si intraprende fuori dal “noi” e che prescinde dal “noi”, è il “noi” che si tradisce, mai il “tu” Quel che si imputa al traditore è di essere diventato diverso e di muoversi non più in sintonia, ma da solo. Soltanto se si accetta il cambiamento dell’altro e lo si accoglie come una sfida a ridefinirsi e a ridefinire la relazione. Il tradimento non è più percepito come tradimento. Ma ridefinirsi è difficile così come accettare il cambiamento. Per questo le vie più battute sono quelle della fedeltà, o in alternativa quelle del risentimento e della vendetta.
Se queste considerazioni hanno una loro plausibilità occorre riscattare, almeno in parte, i traditori dall’infamia di cui solitamente sono ricoperti, perché in ogni tradimento c’è un lampeggiare di verità e autenticità che chi è tradito non vuol mai vedere. Tradire un amore, tradire un amico, tradire un’idea, tradire un partito, tradire persino la patria significa svincolarsi da un’appartenenza e creare uno spazio di identità non protetta da alcun rapporto fiduciario, e quindi in un certo senso più autentica e vera. Nasciamo infatti nella fiducia che qualcuno ci nutra e ci ami ma possiamo crescere e diventar noi stessi solo se usciamo da questa fiducia, se non ne restiamo prigionieri, se a coloro che per primi ci hanno amato e a tutti quelli che dopo di loro sono venuti, un giorno sappiamo dire: “non sono come tu mi vuoi”
C’è infatti in ogni amore, da quello dei genitori a quello dei mariti, delle mogli, degli amici, degli amanti, una forma di possesso che arresta la nostra crescita e costringe la nostra identità a costituirsi solo all’interno di quel recinto che è l’amore che non dobbiamo tradire. Ma in ogni amore che non conosce il tradimento e neppure ne ipotizza la possibilità c’è troppa infanzia, troppa ingenuità, troppa paura di vivere con le sole nostre forze, troppa incapacità di amare se appena si annuncia un profilo d’ombra.
Eppure senza profilo d’ombra, quella che puerilmente chiamiamo amore, c’è l’incapacità di abbandonare lidi protetti, di uscire a briglia sciolta e a proprio rischio verso le regioni sconosciute della vita che si offrono solo a quanti sanno dire per davvero addio. E in ogni addio c’è lo stigma del tradimento e insieme dell’emancipazione . C’è il lato oscuro dell’amore che però è anche ciò che gli conferisce il suo significato e che lo rende possibile.
Amore e tradimento devono infatti l’un l’altro la densità del loro essere che emancipa non solo il traditore ma anche il tradito, risvegliando l’un l’altro dal loro sonno e dalla loro pigrizia emancipativi impropriamente scambiata per amore. Gioco di prestigio di parole per confondere le carte e barare al gioco della vita.
Umberto Galimberti, "La Repubblica" del 27/08/2003